lunedì 17 dicembre 2012

Nascita dei rally in Italia (III° Parte)



Le auto? Per Lipizer furono Lancia Appia, Fiat 600 e 850, poi ancora Lancia, ma Fulvia berlina e poi Flavia coupé preparate da Bosato di Torino e Trivellato di Vicenza. Successivamente Alfa Giulia GT Autodelta e Fiat 125 ufficiale. “I rally - ricorda Lipizer - mi hanno insegnato a tenere duro, a non gettare mai la spugna. Anche perché bisognava fare davvero miracoli con le nostre automobili, poco diverse dalle vetture di tutti i giorni, con potenze da ridere. Si correva di notte e su strade quasi sempre sterrate con gomme da neve. E poi, a differenza dei rally moderni, bisognava macinare centinaia, migliaia di chilometri con interminabili marce di avvicinamento”. Oggi i rally assomigliano ai gran premi. Le gare sono molto più condensate e brucianti e le auto hanno potenze strepitose, superiori ai 400 cavalli, nonostante la drastica riduzione degli anni Ottanta quando le più potenti, come la Delta S4, raggiungevano i 700 cavalli e pesavano appena 900 chili. “Ai miei tempi - racconta Lipizer - c'erano gli amici che ci seguivano per l'assistenza, si mettevano in ferie dalle rispettive occupazioni e partivano da casa insieme ai piloti, come per un viaggio, una gita. Con loro studiavamo il percorso, compivamo una prima ricognizione. Poi stabilivamo i passaggi cruciali, dove dovevano aspettarci con le gomme, il cacciavite le lanterne, pronti a darci una mano”.
Ben diversa l'organizzazione dei rally moderni dove l'assistenza è ammessa solo nel parco chiuso. Anche le distanze sono contenute, spesso circoscritte in aree limitate per ridurre i permessi di attraversamento ed eventuali proteste del pubblico, oggi purtroppo più frequenti rispetto a mezzo secolo fa. Se un'auto moderna da rally può raggiungere in un baleno i 210, le berline da rally anni Sessanta erano cammelli per lunghe traversate. Senza accelerazioni brucianti e differenziali elettronici per controllare la trazione in uscita, permettendo di scaricare sulle ruote tutta la potenza e raddrizzare rapidamente l'auto dopo la derapata.
“Tutti questi cavalli - ricorda Lipizer - erano assolutamente inutili sulle strade sterrate anni Cinquanta e Sessanta perché se c’era troppa potenza l'auto si intraversava alla minima accelerata”. E precisa: “Io per controllare la sbandata non usavo l’elettronica ma il freno a mano e il mio navigatore prendeva certe paure che a volte perdeva tutte le carte”. Anche le spese erano diverse. Correre è sempre costato caro, ma oggi più di ieri. Calcolando uno stipendio medio di 40, 50 mila lire al mese del l960, Lipizer spiega che un anno di corse poteva costare un milione delle vecchie lire ogni anno.
“Un giorno ero a corto di moneta e fortuna volle che vincessi una gara in Val d'Aosta. Il casinò di Saint Vincent mi mise in mano una fiche da 500 mila lire. Erano soldi. Con una cifra così si comprava una Fiat 500 nuova di zecca. Ricordo che ero molto tentato dalla roulette, ma temevo di mangiarmeli. Alla fine dissi a me stesso: ‘Sergio, questo è il frutto della vittoria, ti meriti un divertimento’. Andai al tavolo da gioco, puntai la fiche e vinsi. Ammetto di essere un uomo fortunato”.
Quanto alla sicurezza, le precauzioni erano per lo più decorative. I piloti anni Sessanta potevano correre senza cinture di sicurezza, con la giacca di tweed o il maglione di cachemire invece della tuta ignifuga ad altissima resistenza. Nemmeno i rollbar erano obbligatori e quasi nessuno li utilizzava.
Per non parlare dell'impianto anti incendio sull'auto, che oggi è obbligatorio e nei primi rally nessuno aveva. “Quando andava bene, avevamo un piccolo estintore”.

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