Le auto? Per Lipizer furono Lancia
Appia, Fiat 600 e 850, poi ancora Lancia, ma Fulvia berlina e poi
Flavia coupé preparate da Bosato di Torino e Trivellato di Vicenza.
Successivamente Alfa Giulia GT Autodelta e Fiat 125 ufficiale. “I
rally - ricorda Lipizer - mi hanno insegnato a tenere duro, a non
gettare mai la spugna. Anche perché bisognava fare davvero miracoli
con le nostre automobili, poco diverse dalle vetture di tutti i
giorni, con potenze da ridere. Si correva di notte e su strade quasi
sempre sterrate con gomme da neve. E poi, a differenza dei rally
moderni, bisognava macinare centinaia, migliaia di chilometri con
interminabili marce di avvicinamento”. Oggi i rally assomigliano ai
gran premi. Le gare sono molto più condensate e brucianti e le auto
hanno potenze strepitose, superiori ai 400 cavalli, nonostante la
drastica riduzione degli anni Ottanta quando le più potenti, come la
Delta S4, raggiungevano i 700 cavalli e pesavano appena 900 chili.
“Ai miei tempi - racconta Lipizer - c'erano gli amici che ci
seguivano per l'assistenza, si mettevano in ferie dalle rispettive
occupazioni e partivano da casa insieme ai piloti, come per un
viaggio, una gita. Con loro studiavamo il percorso, compivamo una
prima ricognizione. Poi stabilivamo i passaggi cruciali, dove
dovevano aspettarci con le gomme, il cacciavite le lanterne, pronti a
darci una mano”.
Ben diversa l'organizzazione dei rally
moderni dove l'assistenza è ammessa solo nel parco chiuso. Anche le
distanze sono contenute, spesso circoscritte in aree limitate per
ridurre i permessi di attraversamento ed eventuali proteste del
pubblico, oggi purtroppo più frequenti rispetto a mezzo secolo fa.
Se un'auto moderna da rally può raggiungere in un baleno i 210, le
berline da rally anni Sessanta erano cammelli per lunghe traversate.
Senza accelerazioni brucianti e differenziali elettronici per
controllare la trazione in uscita, permettendo di scaricare sulle
ruote tutta la potenza e raddrizzare rapidamente l'auto dopo la
derapata.
“Tutti questi cavalli - ricorda
Lipizer - erano assolutamente inutili sulle strade sterrate anni
Cinquanta e Sessanta perché se c’era troppa potenza l'auto si
intraversava alla minima accelerata”. E precisa: “Io per
controllare la sbandata non usavo l’elettronica ma il freno a mano
e il mio navigatore prendeva certe paure che a volte perdeva tutte le
carte”. Anche le spese erano diverse. Correre è sempre costato
caro, ma oggi più di ieri. Calcolando uno stipendio medio di 40, 50
mila lire al mese del l960, Lipizer spiega che un anno di corse
poteva costare un milione delle vecchie lire ogni anno.
“Un giorno ero a corto di moneta e
fortuna volle che vincessi una gara in Val d'Aosta. Il casinò di
Saint Vincent mi mise in mano una fiche da 500 mila lire. Erano
soldi. Con una cifra così si comprava una Fiat 500 nuova di zecca.
Ricordo che ero molto tentato dalla roulette, ma temevo di
mangiarmeli. Alla fine dissi a me stesso: ‘Sergio, questo è il
frutto della vittoria, ti meriti un divertimento’. Andai al tavolo
da gioco, puntai la fiche e vinsi. Ammetto di essere un uomo
fortunato”.
Quanto alla sicurezza, le precauzioni
erano per lo più decorative. I piloti anni Sessanta potevano correre
senza cinture di sicurezza, con la giacca di tweed o il maglione di
cachemire invece della tuta ignifuga ad altissima resistenza. Nemmeno
i rollbar erano obbligatori e quasi nessuno li utilizzava.
Per non parlare dell'impianto anti
incendio sull'auto, che oggi è obbligatorio e nei primi rally
nessuno aveva. “Quando andava bene, avevamo un piccolo estintore”.
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