“Volevo fare la Mille Miglia del l957
ma a Guidizzolo, vicino Mantova, accadde un incidente gravissimo e la
gara venne abolita per sempre. Cosi mi ritrovai a correre i rally”.
La confessione di Arnaldo Cavallari, 74 anni, considerato il padre
del rallismo italiano, inquadra bene le condizioni sportive che, dopo
l’abo1izione delle grandi corse su strada decretata dalla fine
degli anni Cinquanta, permise ai rally di affermarsi prima come prove
di regolarità, poi di velocità.
Cavallari, nato il 13 luglio 1932 a
Fiesso Umbertino (Rovigo), e stato il primo grande interprete
italiano di questa specialità, al volante di Alfa Romeo, Abarth,
Lancia, Renault, Porsche.
Ha vinto il titolo di campione italiano
nel 1962, 1963 e 1964 su Alfa Romeo, nel 1968 e 1971 su Lancia. Uomo
di gusto e talento, si e laureato in Economia e Commercio ed ha
portato in gara per la prima volta Sandro Munari, rivelandolo al
grande pubblico. Nel primo campionato universitario di Modena (21
marzo 1954) si aggiudicò la categoria su Fiat Topolino C
Giardinetta.
“Fra i partecipanti c’era anche
Umberto Agnelli, su Fiat 1100TV e mi ricordo che ci portarono a fare
il giro d’onore insieme perché avevamo vinto le nostre classi.
Solo dopo mi spiegarono chi era”. Ma la Topolino andava piano,
troppo piano. Cosi, dopo una Stanguellini e un'Abarth Zagato 750,
arrivo una Giulietta.
“Sognavo Montecarlo, la Coppa delle
Alpi, ma in Italia i rally erano solo prove di abilità, qualcosa più
delle gimkane. Per fare davvero i rally bisognava emigrare. Mi
iscrissi alla Liegi-Roma-Liegi del 1960 con la Giulietta, una
maratona che finiva a Sofia, in Bulgaria. L'avventura durò dal 28
agosto al 5 settembre. Macinai quasi cinquemila chilometri
ininterrottamente. Senza mangiare, dormire, fare pipì. Avevo
imbottito l’auto con ruote di scorta, ricambi, valigie. Dalla
Jugoslavia in giù fu un’agonia perché le strade non risultavano
nemmeno sulle carte e c’erano pietre aguzze, valichi pericolosi,
burroni e precipizi non protetti. Continuai la gara con la marmitta
staccata che toccava terra rimbalzando, il volante che vibrava, in
costante ritardo sulla tabella di marcia. Davanti c'erano i francesi
Oreiller-Masoero, su una Giulietta TI di Conrero.
Ma poi cedettero il comando alla
Citroen ID di Trauttmann-Coltelloni, francesi pure loro. Al Brennero
l'avvocato veneziano Luigi Stochino, un pioniere dei rally e un
grande gentiluomo, convinse l'Alfa Romeo a intervenire per dare una
mano a quei due ragazzi di Adria che tenevano alto il tricolore
italiano. Arrivò un furgone attrezzato con tre meccanici. La
Giulietta entro in sala di rianimazione e poco prima del Tonale me la
riconsegnarono un po' ringalluzzita. Ma avevamo perduto troppo tempo.
Arrivai al controllo di Rovereto fuori tempo massimo. Io e il
copilota Milani iniziammo a piangere come due fontane”.
Ma il fascino di queste imprese era
rappresentato dal fatto che, dopo una settimana, la stessa auto
spremuta sulle più impervie strade d'Europa, tornava al lavoro nel
mulino gestito dalla famiglia Cavallari, ad Adria. “La Giulietta
aveva una duplice funzione: portare i sacchi di farina nei giorni
lavorativi e correre nei fine settimana”, sorride Arnaldo
ricordando con nostalgia quel modo di vivere le corse. “Vicino al
magazzino del mulino. aprii una piccola officina, la battezzai Ospa,
perché all'epoca eravamo tutti invaghiti dell’Osca. Ospa voleva
dire Officina Specializzata Preparazioni Auto. Destinai un nostro
collaboratore a meccanico specializzato. Gli esiti furono modesti ma
ci divertimmo un mondo”.
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