lunedì 17 dicembre 2012

Nascita dei rally in Italia (I° Parte)




“Volevo fare la Mille Miglia del l957 ma a Guidizzolo, vicino Mantova, accadde un incidente gravissimo e la gara venne abolita per sempre. Cosi mi ritrovai a correre i rally”. La confessione di Arnaldo Cavallari, 74 anni, considerato il padre del rallismo italiano, inquadra bene le condizioni sportive che, dopo l’abo1izione delle grandi corse su strada decretata dalla fine degli anni Cinquanta, permise ai rally di affermarsi prima come prove di regolarità, poi di velocità.
Cavallari, nato il 13 luglio 1932 a Fiesso Umbertino (Rovigo), e stato il primo grande interprete italiano di questa specialità, al volante di Alfa Romeo, Abarth, Lancia, Renault, Porsche.
Ha vinto il titolo di campione italiano nel 1962, 1963 e 1964 su Alfa Romeo, nel 1968 e 1971 su Lancia. Uomo di gusto e talento, si e laureato in Economia e Commercio ed ha portato in gara per la prima volta Sandro Munari, rivelandolo al grande pubblico. Nel primo campionato universitario di Modena (21 marzo 1954) si aggiudicò la categoria su Fiat Topolino C Giardinetta.
“Fra i partecipanti c’era anche Umberto Agnelli, su Fiat 1100TV e mi ricordo che ci portarono a fare il giro d’onore insieme perché avevamo vinto le nostre classi. Solo dopo mi spiegarono chi era”. Ma la Topolino andava piano, troppo piano. Cosi, dopo una Stanguellini e un'Abarth Zagato 750, arrivo una Giulietta.
“Sognavo Montecarlo, la Coppa delle Alpi, ma in Italia i rally erano solo prove di abilità, qualcosa più delle gimkane. Per fare davvero i rally bisognava emigrare. Mi iscrissi alla Liegi-Roma-Liegi del 1960 con la Giulietta, una maratona che finiva a Sofia, in Bulgaria. L'avventura durò dal 28 agosto al 5 settembre. Macinai quasi cinquemila chilometri ininterrottamente. Senza mangiare, dormire, fare pipì. Avevo imbottito l’auto con ruote di scorta, ricambi, valigie. Dalla Jugoslavia in giù fu un’agonia perché le strade non risultavano nemmeno sulle carte e c’erano pietre aguzze, valichi pericolosi, burroni e precipizi non protetti. Continuai la gara con la marmitta staccata che toccava terra rimbalzando, il volante che vibrava, in costante ritardo sulla tabella di marcia. Davanti c'erano i francesi Oreiller-Masoero, su una Giulietta TI di Conrero.
Ma poi cedettero il comando alla Citroen ID di Trauttmann-Coltelloni, francesi pure loro. Al Brennero l'avvocato veneziano Luigi Stochino, un pioniere dei rally e un grande gentiluomo, convinse l'Alfa Romeo a intervenire per dare una mano a quei due ragazzi di Adria che tenevano alto il tricolore italiano. Arrivò un furgone attrezzato con tre meccanici. La Giulietta entro in sala di rianimazione e poco prima del Tonale me la riconsegnarono un po' ringalluzzita. Ma avevamo perduto troppo tempo. Arrivai al controllo di Rovereto fuori tempo massimo. Io e il copilota Milani iniziammo a piangere come due fontane”.
Ma il fascino di queste imprese era rappresentato dal fatto che, dopo una settimana, la stessa auto spremuta sulle più impervie strade d'Europa, tornava al lavoro nel mulino gestito dalla famiglia Cavallari, ad Adria. “La Giulietta aveva una duplice funzione: portare i sacchi di farina nei giorni lavorativi e correre nei fine settimana”, sorride Arnaldo ricordando con nostalgia quel modo di vivere le corse. “Vicino al magazzino del mulino. aprii una piccola officina, la battezzai Ospa, perché all'epoca eravamo tutti invaghiti dell’Osca. Ospa voleva dire Officina Specializzata Preparazioni Auto. Destinai un nostro collaboratore a meccanico specializzato. Gli esiti furono modesti ma ci divertimmo un mondo”.

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